Disagio psichico degli adolescenti, il 70% dell’iceberg è invisibile ai servizi

Sono 57 i progetti attivi sul benessere psichico di bambini e ragazzi, grazie ai due bandi Attenta-Mente di Fondazione Cariplo. I primi 34 progetti, partiti un anno fa, seguono 640 ragazzi con profili gravi: il 70% era fuori dai radar dei servizi. In dialogo con Katarina Wahlberg

Fermarsi. Ammettere di non stare bene. Prendersi del tempo e dello spazio per la propria salute mentale. Lo ha fatto Sangiovanni in queste ore, lo ha fatto Simone Biles nel 2020. Ma quanti sono gli adolescenti che stanno male? Sappiamo che le neuropsichiatrie infantili non hanno mai avuto tante richieste come in questi ultimi anni e sappiamo anche che la loro capacità di risposta è purtroppo limitata e inadeguata rispetto al bisogno. Di quanto? Di tantissimo. Non è solo questione di liste d’attesa piene e di tempi d’attesa troppo lunghi. C’è altro che nemmeno vediamo, gli invisibili. C’è – forse – addirittura un 70% di adolescenti che hanno un bisogno importante psichiatrico e che non solo restano fuori dalle porte dei servizi a cui hanno bussato, ma che nemmeno arrivano a bussare a quelle porte.

Una parte sommersa dell’iceberg molto più grande di quel che pensavamo, anche solo restando al perimetro dei ragazzi che avrebbero bisogno non di un supporto per il loro benessere psicologico ma di una vera e propria presa in carico psichiatrica. Il dato emerge dal monitoraggio del primo anno di attività dei progetti finanziati da Fondazione Cariplo con il bando Attenta-Mente, dedicato al benessere emotivo, psicologico, relazionale di bambine e bambini, ragazzi e ragazze. Furono stanziati 2,5 milioni di euro, vennero presentati 144 progetti, tanto che Cariplo decise di aumentare il finanziamento a 5,2 milioni, finanziando 34 progetti biennali. Gli esiti della seconda edizione del bando – 4 milioni di euro per sostenere altri 23 progetti – sono appena stati resi noti. In arrivo, ad aprile, c’è una terza edizione del bando. Ne parliamo con Katarina Wahlberg, programme officer nell’Area Servizi alla Persona di Fondazione Cariplo.

 

Che analisi possiamo fare, con i primi 34 progetti entrati ormai nel secondo anno di attività?

Il bando accanto all’attività filantropica erogativa ha previsto tre azioni di supporto: una di ricerca che vede come capofila l’Università di Pavia, partendo dai dati amministrativi della sanità lombarda, una di monitoraggio trasversale sui progetti finanziati e una di comunicazione sui social, in particolare su Instagram. Rispetto ai 34 progetti avviati l’anno scorso abbiamo raccolto in modo sistematico una serie di dati che abbiamo discusso all’interno di una comunità di pratica. Il punto è che di questo tema spesso si parla in base ad esperienze sul campo che sono ovviamente importantissime ma che ci restituiscono un’immagine un po’ frammentata, in parte soggettiva e comunque molto localizzata. I dati emersi dai progetti non hanno un valore scientifico perché il campione non nasce con quella finalità, ma permettono comunque di fare alcune riflessioni interessanti. Le reti nel loro insieme hanno raccolto moltissimi dati non sui ragazzi coinvolti a livello di prevenzione – quello sarebbe impossibile – ma sui ragazzi con i profili diciamo più gravi, sulle prese in carico più strutturate. I 34 progetti seguono complessivamente 640 ragazzi che hanno una presa in carico strutturata e il 70% di essi non era noto ai servizi prima del progetto: questo è un segno della capacità di intercettazione precoce delle reti e in parte anche di quante situazioni molto complesse erano fuori dal radar dei servizi, per tante ragioni. 

 

Ci sono altre riflessioni che si possono fare a partire dai dati raccolti? 

L’altro elemento è che si parla prevalentemente di adolescenti e preadolescenti e di loro i progetti si occupano, ma stiamo vedendo una differenza di genere nelle fasce di età. Tra i bambini più piccoli, nell’età della scuola primaria, le prese in carico sono in maggioranza per i maschi, mentre nell’età dell’adolescenza ci sono più femmine. Non abbiamo ancora risposte, ma i numeri pongono una questione. Un’ipotesi può essere che i maschi tendano a esternare di più, a mettere in atto comportamenti visibilmente  problematici e aggressivi, a manifestare il loro disagio: quindi in un certo senso questo permette al disagio di essere colto intercettato prima. Le femmine invece sono più silenziose e meno esplicite nella loro richiesta di aiuto e quindi queste problematiche si presentano solo in una fase più avanzata. Questa ipotesi implica che dovremmo affinare lo sguardo sulle bambine, prima dell’adolescenza, proprio perché poi le situazioni diventano più complicate da gestire. Terzo tema emerso prepotentemente è che spessissimo ci troviamo di fronte a ragazzi che sanno di aver bisogno di aiuto e che vorrebbero chiedere aiuto o comunque discutere delle situazioni in cui si trovano ma con cui è impossibile lavorare perché i genitori non danno il consenso. Soprattutto quando i genitori sono separati diventa molto complicato acquisire il consenso di entrambi. 

 

È un tema delicatissimo, che però comincia a emergere con una certa frequenza. Come si può affrontare, oltre all’ipotesi di discuterlo sul piano normativo?

Lavorando molto con la famiglia, da un lato in maniera preliminare e preparatoria in generale, prima e a prescindere dal fatto che ci sia un bisogno specifico del figlio. Lavorare non sulla dimensione individuale, con un taglio che allenti la percezione di lavorare sul versante psicologico e psichico. Poi c’è il lavoro con le famiglie dei ragazzi che hanno bisogno. In tantissime di queste vicende emerge chiaramente il fatto che alle spalle del disagio c’è una situazione familiare molto molto complicata. Molti progetti si sono trovati a lavorare più e prima con i genitori, sia per supportarli sia per fargli capire la situazione del figlio. C’è chi dice esplicitamente che in verità dovremmo lavorare con la componente adulta, cosa che richiede tempi e investimenti di lungo periodo. Devo dire che nel secondo bando, sia nei progetti che si sono candidati sia in quelli che sono stati finanziati, questo aspetto si avverte chiaramente. Il fuoco rimane sui ragazzi, però mentre nel primo bando con 34 progetti si prevedeva il coinvolgimento – come beneficiari di tutte le azioni, dalla sensibilizzazione fino alle prese in carico più specialistiche – di 37mila minori e 7mila adulti, ecco che in questa seconda edizione abbiamo 23 progetti che prevedono il coinvolgimento di 28mila minori e 23mila adulti. Questo è interessante perché ha a che fare con lo smettere di guardare questi ragazzi come se fossero loro i problematici e col cominciare a chiederci di più noi come adulti cosa stiamo mettendo in campo da un punto di vista educativo e di capacità di ascolto.

 

Sta emergendo molto quindi anche la fragilità dei genitori e degli adulti…

Ci sono molti ragazzi che portano anche la fatica di avere che fare con degli adulti fragili, insicuri e angosciati, che saltano appena l’adolescente si permette di dire che non sta bene. Tutto a quel punto diventa molto più complicato, l’adolescente sente di doversi fare carico anche di quel pezzo. 

 

Uno dei focus del bando Attenta-Mente nella prima edizione riguardava l’intervento nel lungo lasso di tempo che oggi intercorre fra la richiesta di aiuto e l’effettiva presa in carico da parte dei servizi, affinché non fosse un tempo vuoto. L’attesa infatti rischia anche di indebolire la motivazione. 

Occorre muoversi tra il dare quella risposta tempestiva che non i servizi non riescono appunto a garantire, senza chiedere e senza spingere il Terzo settore a supplire, a sostituirsi a quella che è una competenza e una titolarità del pubblico. A Varese il progetto SOStegno km 0, che ha per capofila Il Ponte del Sorriso ha creato un “pronto soccorso”, una situazione di pronto intervento allestita all’interno dell’ospedale in sinergia con la struttura di neuropsichiatria, che sta accogliendo tutte quelle situazioni che anche dopo la segnalazione alla neuropsichiatria, per via delle liste d’attesa sarebbero rimaste “sospese” per uno o due anni. Adesso nell’arco di veramente poche settimane quel ragazzo viene visto. Immaginavano di lavorare in una soluzione di esordio, in realtà stanno arrivando situazioni molto più gravi di quelle che si aspettavano. L’altra cosa che si sta facendo è lavorare con i ragazzi che sono già in cura, offrendo delle risposte complementari: per esempio c’è un progetto per adolescenti in ritiro sociale che a Milano, in collaborazione con l’Asst Santi Paolo e Carlo, lavora con la pet therapy con evidenze che sembrano molto interessanti. È chiaro che concorrono tanti altri fattori e questa non è la bacchetta magica, ma di fatto questi ragazzi sono tornati a scuola, quindi evidentemente sommando le energie e le forze alcune cose accadono.

 

Siamo riusciti a coprire anche le province di Novara e Lecco, che l’anno scorso non avevano alcuna progettazione, e tutti i municipi di Milano. Quindi in questo momento tramite i 57 progetti attivi, abbiamouna luce accesa in tutto il territorio. Quest’anno inoltre abbiamoun’attenzione alla precocità, con interventi che puntano a una fascia d’età più bassa; un’attenzione mirata per iminori straniericon otto progetti su 23 che nominano esplicitamente questa questa platea, con un lavoro con i mediatori culturali di affiancamento alle famiglie che appunto arrivano da background culturale diversi e quindi anche rispetto alla salute mentale hanno un atteggiamento diverso. Un altro aspetto positivo è il fatto che diversi progetti siano riusciti adattivarsi in territori e in quartieri molto problematici, di svantaggio economico e sociale abbastanza pronunciato. C’è anche una attenzione per idisturbi del comportamento alimentare: è un focus di molti progetti e due di quelli finanziati sono dedicati proprio a questo tema, con un approcci innovativi e sperimentali interessanti. L’anno scorso sul tema c’era una maggiore estremizzazione: la prevenzione da un lato e la risposta sanitaria iper medicalizzata dall’altro. Ora invece abbiamo un progetto che che riesce a tenere insieme tanti elementi e tante competenze per affiancare questi ragazzi e un altro che punta molto sul digitale e il metaverso come strumento sia di aggancio sia di accompagnamento. L’ultimo elemento che emerge nella seconda edizione rispetto alla prima, lo accennavo prima, èl’investimento sugli adulti: ci sono più progetti dedicano energie a lavorare appunto sul contesto familiare e sul contesto più ampio. L’idea è che accanto al lavoro individuale con i ragazzi e per i ragazzi sia necessario lavorare in modo più ecologico, sull’ambiente di vita, con un intervento di riabilitazione sociale a partire dalla scuola.

Ci sarà un terzo bando Attenta-Mente?

Sì, uscirà come più o meno ad aprile e sarà l’ultimo in questa forma. Avrà una dotazione di 2 milioni di euro. La preoccupazione principale sarà di sollecitare i territori ad essere ben consapevoli di quello che già esiste, scandagliando quelle aree che sono meno coperte per fascia d’età o per territorio o per problematica.

Qual è una riflessione che avete maturato e che magari non vi aspettavate?

Alessandro Albizzati, direttore della Uonpia Asst Santi Paolo ci invita sempre a distinguere tra quello che è un dolore fisiologico costitutivo dell’animo umano, in particolare nelle fasi della crescita – fra cui l’adolescenza – da quello che è patologia. Purtroppo il mondo adulto, anche dei professionisti, fa fatica a fare questa distinzione e quindi noi sempre più spesso chiamiamo patologia delle cose che sono la normale complessità della crescita. Ci sono tante situazioni che vanno affrontate e che vanno sostenute con delle terapie ma dobbiamo fare molta attenzione, anche con queste progettualità, a non passare il messaggio che i ragazzi sono stanno tutti male e sono tutti problematici: tante cose hanno a che fare con la normale difficoltà di crescere.