progetto cooperativa fuoriclasse

A scuola di scultura alla cooperativa Fuoriclasse per i ragazzi delle comunità

l responsabile Paolo Di Guida: “I ragazzi sono coinvolti direttamente in attività di tipo artistico e artigianale, per stimolare il loro potere creativo, aiutandoli a realizzare la propria autostima”

Grande entusiasmo per l’iniziativa sociale promossa dalla Cooperativa Fuoriclasse di Casagiove e diretta a inserire in progetti di integrazione sociale i ragazzi minori delle Comunità.

“Si realizza un primo step del progetto – afferma il responsabile Paolo Di Guida – che coinvolge i ragazzi direttamente in attività di tipo artistico e artigianale, per stimolare il loro potere creativo, nell’immediato, e per aiutarli a realizzare la propria autostima e la piena consapevolezza delle proprie capacità, nel medio lungo periodo, da mettere in pratica nel modo delle professioni”.

L’iniziativa, in particolare, è organizzata a San Prisco in collaborazione con l’Associazione artistico-culturale Art Fusion di Andrea Piccerillo, che guiderà i ragazzi, provenienti dalle Comunità della Cooperativa Fuoriclasse, nella manipolazione della creta e di altri materiali utili alla creazione di manufatti. Il cuore dell’attività sta nella connessione tra energia, creatività e natura, infatti si svolge a contatto diretto con la natura.

I ragazzi sono condotti a esercitare il loro potere creativo attraverso la manipolazione della materia, un modo per meditare senza perdere il contatto con la realtà. Infatti per manipolare la materia è richiesta la concentrazione dei nostri sensi, facilitando il distacco dal mondo che ci circonda e l’accesso al nostro mondo interiore, per portare alla luce i nostri vissuti nascosti, per accettarli, affrontarli e superarli. Attraverso questo processo catartico sono messi in movimento tutti i sensi, sviluppando il proprio potere vitale, riconoscendo i propri limiti e potenziando la nostra autostima. Un’attività che permette di mettersi in gioco e, proprio per questo processo, di liberarsi e di lasciarsi andare.

Rif. https://www.casertanews.it/attualita/laboratori-artigianato-scultura-cooperativa-fuoriclasse-minori-comunita.html

psicologia

Disagio psichico degli adolescenti, il 70% dell’iceberg è invisibile ai servizi

Sono 57 i progetti attivi sul benessere psichico di bambini e ragazzi, grazie ai due bandi Attenta-Mente di Fondazione Cariplo. I primi 34 progetti, partiti un anno fa, seguono 640 ragazzi con profili gravi: il 70% era fuori dai radar dei servizi. In dialogo con Katarina Wahlberg

Fermarsi. Ammettere di non stare bene. Prendersi del tempo e dello spazio per la propria salute mentale. Lo ha fatto Sangiovanni in queste ore, lo ha fatto Simone Biles nel 2020. Ma quanti sono gli adolescenti che stanno male? Sappiamo che le neuropsichiatrie infantili non hanno mai avuto tante richieste come in questi ultimi anni e sappiamo anche che la loro capacità di risposta è purtroppo limitata e inadeguata rispetto al bisogno. Di quanto? Di tantissimo. Non è solo questione di liste d’attesa piene e di tempi d’attesa troppo lunghi. C’è altro che nemmeno vediamo, gli invisibili. C’è – forse – addirittura un 70% di adolescenti che hanno un bisogno importante psichiatrico e che non solo restano fuori dalle porte dei servizi a cui hanno bussato, ma che nemmeno arrivano a bussare a quelle porte.

Una parte sommersa dell’iceberg molto più grande di quel che pensavamo, anche solo restando al perimetro dei ragazzi che avrebbero bisogno non di un supporto per il loro benessere psicologico ma di una vera e propria presa in carico psichiatrica. Il dato emerge dal monitoraggio del primo anno di attività dei progetti finanziati da Fondazione Cariplo con il bando Attenta-Mente, dedicato al benessere emotivo, psicologico, relazionale di bambine e bambini, ragazzi e ragazze. Furono stanziati 2,5 milioni di euro, vennero presentati 144 progetti, tanto che Cariplo decise di aumentare il finanziamento a 5,2 milioni, finanziando 34 progetti biennali. Gli esiti della seconda edizione del bando – 4 milioni di euro per sostenere altri 23 progetti – sono appena stati resi noti. In arrivo, ad aprile, c’è una terza edizione del bando. Ne parliamo con Katarina Wahlberg, programme officer nell’Area Servizi alla Persona di Fondazione Cariplo.

 

Che analisi possiamo fare, con i primi 34 progetti entrati ormai nel secondo anno di attività?

Il bando accanto all’attività filantropica erogativa ha previsto tre azioni di supporto: una di ricerca che vede come capofila l’Università di Pavia, partendo dai dati amministrativi della sanità lombarda, una di monitoraggio trasversale sui progetti finanziati e una di comunicazione sui social, in particolare su Instagram. Rispetto ai 34 progetti avviati l’anno scorso abbiamo raccolto in modo sistematico una serie di dati che abbiamo discusso all’interno di una comunità di pratica. Il punto è che di questo tema spesso si parla in base ad esperienze sul campo che sono ovviamente importantissime ma che ci restituiscono un’immagine un po’ frammentata, in parte soggettiva e comunque molto localizzata. I dati emersi dai progetti non hanno un valore scientifico perché il campione non nasce con quella finalità, ma permettono comunque di fare alcune riflessioni interessanti. Le reti nel loro insieme hanno raccolto moltissimi dati non sui ragazzi coinvolti a livello di prevenzione – quello sarebbe impossibile – ma sui ragazzi con i profili diciamo più gravi, sulle prese in carico più strutturate. I 34 progetti seguono complessivamente 640 ragazzi che hanno una presa in carico strutturata e il 70% di essi non era noto ai servizi prima del progetto: questo è un segno della capacità di intercettazione precoce delle reti e in parte anche di quante situazioni molto complesse erano fuori dal radar dei servizi, per tante ragioni. 

 

Ci sono altre riflessioni che si possono fare a partire dai dati raccolti? 

L’altro elemento è che si parla prevalentemente di adolescenti e preadolescenti e di loro i progetti si occupano, ma stiamo vedendo una differenza di genere nelle fasce di età. Tra i bambini più piccoli, nell’età della scuola primaria, le prese in carico sono in maggioranza per i maschi, mentre nell’età dell’adolescenza ci sono più femmine. Non abbiamo ancora risposte, ma i numeri pongono una questione. Un’ipotesi può essere che i maschi tendano a esternare di più, a mettere in atto comportamenti visibilmente  problematici e aggressivi, a manifestare il loro disagio: quindi in un certo senso questo permette al disagio di essere colto intercettato prima. Le femmine invece sono più silenziose e meno esplicite nella loro richiesta di aiuto e quindi queste problematiche si presentano solo in una fase più avanzata. Questa ipotesi implica che dovremmo affinare lo sguardo sulle bambine, prima dell’adolescenza, proprio perché poi le situazioni diventano più complicate da gestire. Terzo tema emerso prepotentemente è che spessissimo ci troviamo di fronte a ragazzi che sanno di aver bisogno di aiuto e che vorrebbero chiedere aiuto o comunque discutere delle situazioni in cui si trovano ma con cui è impossibile lavorare perché i genitori non danno il consenso. Soprattutto quando i genitori sono separati diventa molto complicato acquisire il consenso di entrambi. 

 

È un tema delicatissimo, che però comincia a emergere con una certa frequenza. Come si può affrontare, oltre all’ipotesi di discuterlo sul piano normativo?

Lavorando molto con la famiglia, da un lato in maniera preliminare e preparatoria in generale, prima e a prescindere dal fatto che ci sia un bisogno specifico del figlio. Lavorare non sulla dimensione individuale, con un taglio che allenti la percezione di lavorare sul versante psicologico e psichico. Poi c’è il lavoro con le famiglie dei ragazzi che hanno bisogno. In tantissime di queste vicende emerge chiaramente il fatto che alle spalle del disagio c’è una situazione familiare molto molto complicata. Molti progetti si sono trovati a lavorare più e prima con i genitori, sia per supportarli sia per fargli capire la situazione del figlio. C’è chi dice esplicitamente che in verità dovremmo lavorare con la componente adulta, cosa che richiede tempi e investimenti di lungo periodo. Devo dire che nel secondo bando, sia nei progetti che si sono candidati sia in quelli che sono stati finanziati, questo aspetto si avverte chiaramente. Il fuoco rimane sui ragazzi, però mentre nel primo bando con 34 progetti si prevedeva il coinvolgimento – come beneficiari di tutte le azioni, dalla sensibilizzazione fino alle prese in carico più specialistiche – di 37mila minori e 7mila adulti, ecco che in questa seconda edizione abbiamo 23 progetti che prevedono il coinvolgimento di 28mila minori e 23mila adulti. Questo è interessante perché ha a che fare con lo smettere di guardare questi ragazzi come se fossero loro i problematici e col cominciare a chiederci di più noi come adulti cosa stiamo mettendo in campo da un punto di vista educativo e di capacità di ascolto.

 

Sta emergendo molto quindi anche la fragilità dei genitori e degli adulti…

Ci sono molti ragazzi che portano anche la fatica di avere che fare con degli adulti fragili, insicuri e angosciati, che saltano appena l’adolescente si permette di dire che non sta bene. Tutto a quel punto diventa molto più complicato, l’adolescente sente di doversi fare carico anche di quel pezzo. 

 

Uno dei focus del bando Attenta-Mente nella prima edizione riguardava l’intervento nel lungo lasso di tempo che oggi intercorre fra la richiesta di aiuto e l’effettiva presa in carico da parte dei servizi, affinché non fosse un tempo vuoto. L’attesa infatti rischia anche di indebolire la motivazione. 

Occorre muoversi tra il dare quella risposta tempestiva che non i servizi non riescono appunto a garantire, senza chiedere e senza spingere il Terzo settore a supplire, a sostituirsi a quella che è una competenza e una titolarità del pubblico. A Varese il progetto SOStegno km 0, che ha per capofila Il Ponte del Sorriso ha creato un “pronto soccorso”, una situazione di pronto intervento allestita all’interno dell’ospedale in sinergia con la struttura di neuropsichiatria, che sta accogliendo tutte quelle situazioni che anche dopo la segnalazione alla neuropsichiatria, per via delle liste d’attesa sarebbero rimaste “sospese” per uno o due anni. Adesso nell’arco di veramente poche settimane quel ragazzo viene visto. Immaginavano di lavorare in una soluzione di esordio, in realtà stanno arrivando situazioni molto più gravi di quelle che si aspettavano. L’altra cosa che si sta facendo è lavorare con i ragazzi che sono già in cura, offrendo delle risposte complementari: per esempio c’è un progetto per adolescenti in ritiro sociale che a Milano, in collaborazione con l’Asst Santi Paolo e Carlo, lavora con la pet therapy con evidenze che sembrano molto interessanti. È chiaro che concorrono tanti altri fattori e questa non è la bacchetta magica, ma di fatto questi ragazzi sono tornati a scuola, quindi evidentemente sommando le energie e le forze alcune cose accadono.

 

Siamo riusciti a coprire anche le province di Novara e Lecco, che l’anno scorso non avevano alcuna progettazione, e tutti i municipi di Milano. Quindi in questo momento tramite i 57 progetti attivi, abbiamouna luce accesa in tutto il territorio. Quest’anno inoltre abbiamoun’attenzione alla precocità, con interventi che puntano a una fascia d’età più bassa; un’attenzione mirata per iminori straniericon otto progetti su 23 che nominano esplicitamente questa questa platea, con un lavoro con i mediatori culturali di affiancamento alle famiglie che appunto arrivano da background culturale diversi e quindi anche rispetto alla salute mentale hanno un atteggiamento diverso. Un altro aspetto positivo è il fatto che diversi progetti siano riusciti adattivarsi in territori e in quartieri molto problematici, di svantaggio economico e sociale abbastanza pronunciato. C’è anche una attenzione per idisturbi del comportamento alimentare: è un focus di molti progetti e due di quelli finanziati sono dedicati proprio a questo tema, con un approcci innovativi e sperimentali interessanti. L’anno scorso sul tema c’era una maggiore estremizzazione: la prevenzione da un lato e la risposta sanitaria iper medicalizzata dall’altro. Ora invece abbiamo un progetto che che riesce a tenere insieme tanti elementi e tante competenze per affiancare questi ragazzi e un altro che punta molto sul digitale e il metaverso come strumento sia di aggancio sia di accompagnamento. L’ultimo elemento che emerge nella seconda edizione rispetto alla prima, lo accennavo prima, èl’investimento sugli adulti: ci sono più progetti dedicano energie a lavorare appunto sul contesto familiare e sul contesto più ampio. L’idea è che accanto al lavoro individuale con i ragazzi e per i ragazzi sia necessario lavorare in modo più ecologico, sull’ambiente di vita, con un intervento di riabilitazione sociale a partire dalla scuola.

Ci sarà un terzo bando Attenta-Mente?

Sì, uscirà come più o meno ad aprile e sarà l’ultimo in questa forma. Avrà una dotazione di 2 milioni di euro. La preoccupazione principale sarà di sollecitare i territori ad essere ben consapevoli di quello che già esiste, scandagliando quelle aree che sono meno coperte per fascia d’età o per territorio o per problematica.

Qual è una riflessione che avete maturato e che magari non vi aspettavate?

Alessandro Albizzati, direttore della Uonpia Asst Santi Paolo ci invita sempre a distinguere tra quello che è un dolore fisiologico costitutivo dell’animo umano, in particolare nelle fasi della crescita – fra cui l’adolescenza – da quello che è patologia. Purtroppo il mondo adulto, anche dei professionisti, fa fatica a fare questa distinzione e quindi noi sempre più spesso chiamiamo patologia delle cose che sono la normale complessità della crescita. Ci sono tante situazioni che vanno affrontate e che vanno sostenute con delle terapie ma dobbiamo fare molta attenzione, anche con queste progettualità, a non passare il messaggio che i ragazzi sono stanno tutti male e sono tutti problematici: tante cose hanno a che fare con la normale difficoltà di crescere.

 

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Aggiornamento Albo regionale delle cooperative sociali

13/01/2024 – Sul BURC n. 16 del 12 febbraio 2024 è stato pubblicato il decreto dirigenziale n. 124 del 05/02/2024 riportante in allegato l’Albo delle Cooperative sociali aggiornato al 31 gennaio 2024

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Aggiornamento Albo regionale delle cooperative sociali

Sul BURC n. 59 del 07 agosto 2023 è stato pubblicato il decreto dirigenziale n. 598 del 02/08/2023 riportante in allegato l’Albo delle Cooperative sociali aggiornato al 31 luglio 2023

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No, i nativi digitali non esistono. Parola di pedagogista

Il 58,4% dei bambini 6-10 anni possiede un device personale. Così come il 14% dei più piccoli. Eppure, osserva Cosimo Di Bari, pedagogista dell’Università di Firenze, «i bambini non sono nativi digitali». Il fatto di saper scattare una foto o far partire un video «non è una “competenza” quanto piuttosto “una confidenza” con la tecnologia». Secondo l’esperto i genitori dovrebbero sensibilizzarsi sui temi della Media Education, fin dai corso preparto e i bambini. «Occorre evitare che gli schermi diventino moderni ciucci digitali»

I bambini non sono nativi digitali». Anzi, «i nativi digitali proprio non esistono». Ne è convinto Cosimo Di Bari, ricercatore di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Firenze.

Secondo l’esperto, che è anche autore del testo uscito proprio quest’anno con Uppa, intitolato per l’appunto I nativi digitali non esistono, «pensare che i bambini siano nativi digitali semplicemente perché “stanno buoni” con lo schermo o perché sono in grado di ricercare il contenuto che desiderano su tablet, pc, cellulari, col sintetizzatore vocale prima ancora di saper scrivere produce un enorme fraintendimento: quello secondo cui le nuove generazioni, essendo nate in un contesto caratterizzato dalla presenza degli schermi, sarebbero già alfabetizzate e tecnologicamente competenti».

Secondo uno studio dell’ospedale Pediatrico Bambino Gesù insieme all’Università La Sapienza e a quella di Tor Vergata (i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Sleep Medicine)il tempo trascorso davanti a uno schermo in sette bambini su dieci è più che triplicato per motivi scolastici (da poco meno di un’ora al giorno a tre ore e mezza) ed è raddoppiato per uso ricreativo (da un’ora e trequarti a tre ore). 

Promuovere il digitale a scuola

Un altro fraintendimento, secondo Di Bari, «è credere che sia sufficiente introdurre l’uso del cellulare, delle app, della LIM (La lavagna interattiva multimediale) per promuovere la competenza digitale». Al contrario, chiarisce, «io ritengo che promuovere la competenza digitale significhi favorire un rapporto attivo con i contenuti, saperli ricercare e selezionare. Questo vale per le fonti web, per i social network, per gli strumenti di scrittura collaborativa come per l’intelligenza artificiale».

Il recente rapporto Global education monitoring report, pubblicato da Unesco a fine luglio rimarca chiaramente come la tecnologia non sia né un veleno né una panacea: «così come la penna può essere usata in modi differenti (per scrivere una lettera d’amore, ma anche per scrivere un testo pieno di odio o perfino per infilarla nell’occhio a chi sta vicino), allo stesso modo gli strumenti digitali necessitano di essere pilotati con consapevolezza, criticità e creatività», osserva il ricercatore. Che poi sottolinea come, rispetto agli strumenti analogici, quelli digitali richiedano una maggiore consapevolezza: «mentre una penna che rimane appoggiata sul tavolo non produce nessun “dato”, uno smartphone che lasciamo acceso, anche se inutilizzato, tende a registrare dati, abitudini, posizioni e questo rende urgente che il fruitore sia consapevole degli interessi che animano l’attuale mondo tecnologico, per usare gli strumenti senza farsi usare».

Questi compiti possono essere promossi fin dalla prima infanzia. «E, se nei primi due anni di vita (come rimarcato dall’Accademia Americana dei Pediatri) sarebbe auspicabile interagire il meno possibile con gli schermi, perché il bambino necessita di sviluppare competenze interagendo con l’ambiente attraverso esperienze sensoriali che utilizzino tutti e cinque i sensi, dai due anni è possibile promuovere una graduale scoperta, gestendo attentamente i tempi e i contenuti; favorendo l’interiorizzazione di regole e abitudini sane, che portino il bambino a diventare realmente autonomo (e criticamente autonomo) in vista di quando sarà da solo con lo strumento».

A questo fine, nel testo I nativi digitali non esistono, Di Bari fornisce indicazioni generali per gestire il rapporto tra infanzia e schermi, ma anche suggerisce come, per varie tipologie di contenuto (dalla pubblicità ai cartoon, dalle App alla fotocamera), i genitori possano prevedere attività col digitale che diventino il “pre-testo” per poi fare altre esperienze che arricchiscano i ragazzi e che rinforzino, gradualmente con l’età, la loro competenza digitale.

Secondo una ricerca dell’Università degli studi Milano Bicocca, il 58,4% dei bambini 6-10 anni possiede un device personale, percentuale in netto aumento rispetto al 2020 (23,5%). Anche l’età si è abbassata: il 14,5% dei bambini con età compresa tra 1 e 5 anni ha un cellulare (prima era meno del 10%).

La formazione per i genitori al corso preparto

Inoltre, secondo Di Bari, «è urgente una formazione che parta dagli insegnanti (come spiegato dal rapporto Unesco), ma che poi necessariamente coinvolga le famiglie. E il mio auspicio, come rimarcato nel volume uscito con Uppa, è che si inizi a educare ai media molto presto: i bambini fin dalla prima infanzia; i genitori fin dal nido di infanzia e, perché no, perfino dai corsi preparto».

Gli schermi sono moderni ciucci digitali?

È, infatti, proprio in ambito familiare che le nostre abitudini (anche quelle mediatiche) si radicano: ad esempio, si domanda Di Bari, «usiamo lo schermo come un calmante di nostro figlio e quindi come se fosse un ciuccio digitale? Teniamo lo schermo acceso durante i pasti? Mettiamo i nostri figli in competizione con gli schermi per avere la nostra attenzione? Usiamo lo schermo per poterci permettere di fare altro?».

Tutte queste abitudini, osserva l’esperto, «non fanno che incentivare un rapporto passivo con lo schermo e sono in linea con quegli usi non produttivi in ambito scolastico dai quali Unesco vuole metterci in guardia». Proprio sul tema, l’Università di Firenze sarà capofila insieme all’Università di Bologna e l’Università di Roma la Sapienza di un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (Di.Co.Each – Digital Competence in Early Childhood) che aspira a coinvolgere nidi di infanzia e scuole dell’infanzia per promuovere la scoperta delle potenzialità e dei rischi delle tecnologie digitali, cercando di stabilire (anche in collaborazione con i pediatri) un proficuo dialogo con le famiglie.

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Inclusione scolastica, come fare perché sia “affare” di tutti i docenti

La nostra legge sull’inclusione scolastica degli alunni con disabilità è la migliore del mondo, ma non riesce a realizzare gli obiettivi che si prefigge. Il nodo problematico è la delega di fatto dell’alunno con disabilità all’insegnante di sostegno e la mancata formazione dei docenti sulla didattica inclusiva. Come uscirne?

In questi giorni si è accentuato il dibattito sull’ipotesi di cattedra mista, che prevederebbe cioè l’affidamento allo stesso docente sia del sostegno sia dell’insegnamento della propria disciplina, ciascuna per mezza cattedra. Il confronto si è fatto particolarmente intenso nel gruppo “suggerimenti per la didattica della vicinanza”, che conta quasi 300 impegnati partecipanti, al punto che il 27 luglio scorso si è tenuto un gruppo ristretto di lavoro con la partecipazione dei due moderatori della Lista, Fernanda Fazio e Nicola Spriano, insieme con Dario Ianes, Massimo Nutini, Evelina Chiocca ed altri, compreso me.

Nel dibattito pubblico è intervenuta anche Francesca Palmas, pedagogista dell’Associazione Bambini Cerebrolesi, con un profondo articolo che ha illustrato l’importanza del docente di sostegno quale “direttore d’orchestra” del Gruppo di lavoro che elabora il Pei, che è lo strumento fondamentale di inclusione tra l’alunno con disabilità, i compagni e tutti i docenti. 

Tuttavia sui social c’è stato chi, in maniera inappropriata, ha affermato che «anche l’ABC è favorevole alla cattedra mista», così che – sempre su VITA – il presidente della Fish Vincenzo Falabella ha precisato la posizione della Federazione: la Fish non è favorevole alla cattedra mista, poiché da tempo insiste culturalmente sull’apposita classe di concorso per il sostegno, dandone ampiamente le motivazioni. Personalmente condivido in toto le argomentazioni di Falabella e mi continuo a chiedere  dove sia “la crescita di consenso” sulla cattedra mista. Infatti si sono mostrati perplessi o contrari esperti del calibro di Iacopo Balocco, Flavio Fogarolo, Raffaele Ciambrone. Invece che a questa strana cattedra, la Fish propone altre più organiche soluzioni.

Le due condizioni necessarie per la qualità dell’inclusione

Il tema che ci sta a cuore, infatti, è a monte. Ed è la domanda “come si può garantire una vera condivisione didattica del progetto inclusivo di qualità, da parte di tutti i docenti della classe?”.

La Fish da tempo sostiene che per riuscirci siano necessarie due inseparabili condizioni: l’apposita classe di concorso per il sostegno e la contemporanea formazione obbligatoria in servizio dei docenti curricolari sulla pedagogia e didattiche speciali.

Per questo secondo aspetto la Fish si rifà al professor Luigi d’Alonzo ed alla Società italiana di pedagogia speciale-Sipes. Sia d’Alonzo che la Fish hanno scritto al ministero dell’Istruzione e del Merito perché nel decreto applicativo della legge n. 79/2022, i miseri 3 crediti formativi universitari dedicati alla pedagogia vengano aumentati notevolmente di numero, per consentire ai docenti curricolari di essere professionalmente in grado di seriamente collaborare coi docenti di sostegno. È noto che, malgrado la nostra legislazione inclusiva sia considerata la migliore del mondo, essa in concreto non riesce a realizzare gli obiettivi che si prefigge, proprio a causa “dell’assoluta ignoranza per legge” della pedagogia e didattica speciale per tutti i docenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado.

Ovviamente queste due condizioni sono necessarie, ma non sufficienti, per realizzare la qualità inclusiva prevista dalle norme.

Cinque passaggi ulteriori

Serve anche un definitivo riordino della normativa dei Centri territoriali per l’inclusione, con l’assegnazione di docenti con semiesonero dall’insegnamento (che attualmente lavorano a titolo di volontariato), perché continuino a lavorare con consulenze itineranti e a gestire gli “sportelli” per l’autismo ed altre disabilità, indispensabili per seguire professionalmente l’inclusione a livello di distretti scolastici.

Occorre una perenne formazione obbligatoria in servizio di tutti i docenti.

Ci vuole pure una maggiore serietà dei corsi di specializzazione, alcuni dei quali sono veramente discutibili. Come possono alcune Università formare seriamente i partecipanti a corsi di specializzazione che prevedano più di 2mila studenti, se non a volte anche 3mila? Numeri autorizzati dal ministero dell’Università e da quello dell’Istruzione e del merito, senza batter ciglio. Molto apprezzabili le Università che chiedono un massimo di 300 posti, con esiti didattici e professionali decisamente degni di rispetto.

E ancora: una volta c’era un gruppo di ispettori ministeriali espressamente preparati sull’inclusione scolastica, che ormai non esistono quasi più. Cosa attende il ministero a ripristinare queste competenze? Non solo per i classici motivi di controllo, ma anche per dare – come in effetti avveniva – consulenze itineranti su tutto il territorio nazionale. Si pensi a quanto hanno giovato a favorire la crescita della qualità inclusiva ispettori come Aldo Zelioli, Laura Serpico Persico, Sergio Neri, Franco Fusca ed altri prematuramente scomparsi oppure ispettori in pensione come Raffaele Iosa.

Inoltre il Ministero, per dare serietà all’inclusione scolastica dovrebbe definitivamente risolvere il problema dei titoli di specializzazione conseguiti all’estero, specie in Europa, del tutto inadatti al nostro sistema ordinamentale: all’estero infatti tali corsi formano docenti che operano solo nelle scuole speciali, mentre noi da decenni operiamo l’inclusione scolastica generalizzata in tutte le scuole.

 

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Irap, per gli enti del Terzo settore spariscono le agevolazioni

Onlus e altre organizzazioni, spesso, non versano l’Irap o pagano una aliquota agevolata. Ora però, chi si iscrive al Runts e diventa Ente del Terzo settore, perde la qualifica di Onlus e quindi l’agevolazione, pur facendo le stesse cose di prima. Uno scherzetto che può costare anche centinaia di migliaia di euro. L’appello alle regioni perché aggiornino le norme.

 

a Onlus a Ente del Terzo settore: un “cambio di cappello” che può costare diverse centinaia di migliaia di euro. È la “sorpresa Irap”, l’imposta regionale sulle attività produttive, per cui le regioni prevedono spesso (seppur a macchia di leopardo) l’esenzione o una riduzione dell’aliquota per Onlus, associazioni di promozione sociale-Aps, organizzazioni di volontariato-Odv, ex Ipab, Csv… Non però per chi ha la nuova veste di Ente del Terzo settore.

Così lo stesso soggetto che ieri non pagava l’Irap perché la regione aveva riconosciuto la meritorietà della sua azione avente finalità sociali, dopo aver fatto il passaggio ad Ets – pur facendo le medesime cose di prima – l’Irap dovrà pagarla.

Paradosso dei paradossi, tanto più una realtà non commerciale avrà investito sul proprio capitale umano (nell’ottica di un Terzo settore sempre più competente e qualificato), assumendo delle persone, tanto più dovrà pagare. Di quanto stiamo parlando? Per una realtà di medie dimensioni, con una settantina di dipendenti, c’è da mettere a budget quasi 100mila euro all’anno in più.

C’è solo una regione che si è già allineata con il Codice del Terzo settore, chiarendo quanto devono versare di Irap gli Enti di Terzo settore: è la Valle d’Aosta, che ha scelto di confermare per gli Enti del Terzo settore iscritti al Runts (comprese le cooperative sociali) e per le Onlus l’esenzione totale già prevista in precedenza per le Onlus. Questo, almeno, fino all’entrata in vigore delle disposizioni fiscali previste dalla Riforma, per cui l’Italia ancora attende risposta da Bruxelles. La provincia autonoma di Bolzano invece prevede l’esenzione per Odv e Aps iscritte al Runts. Qualcosa si sta cominciando forse a muovere: il Consiglio Regionale della Lombardia ha appena modificato la legge regionale per riconoscere alle Odv la continuità delle agevolazioni in materia di tassa automobilistica e di Irap, anche a seguito dell’operatività del Runts. Il Lombardia le Odv che hanno già provveduto ad effettuare il versamento dell’Irap potranno quindi chiedere il rimborso, spiega una nota del CSVnet.

Che cos’è l’Irap

L’imposta regionale sulle attività produttive – Irap è dovuta per l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi. Si paga annualmente e per gli enti di natura non commerciale viene calcolata sostanzialmente prendendo come base imponibile il costo del lavoro, ossia i compensi dei lavoratori, che siano dipendenti a tempo indeterminato, determinato o collaboratori. L’imposta non è nuova a “stranezze”: oltre all’estrema variabilità di aliquota e trattamento delle attività del Terzo settore fra le regioni, va ricordato che in passato lo Stato versava l’Irap alle regioni anche sui compensi dei ragazzi in servizio civile.

«Il nome stesso di questa imposta fa capire chiaramente che c’è qualcosa di non congruo», annota Niccolò Contucci, Chief Fundraising Officer della Fondazione Airc per la ricerca sul cancro, che è già divenuta Ets. Nel 2022 Airc ha versato 275mila euro di Irap. «Noi non siamo mai stati Onlus e quindi l’Irap l’abbiamo sempre pagata, ma sempre ritenendola un’imposta sbagliata. Lo dice il nome stesso, è un’imposta sulle attività produttive: ma se non svolgo attività commerciali, che io sia Onlus o meno, che senso ha? È evidente che si tratta di una imposta applicata ad abundantiam agli enti che non svolgono attività commerciali», dice. La richiesta è chiara: «Siamo convinti che per tutti gli Enti di Terzo settore, non solo per Onlus che sono diventate Ets, debba essere prevista l’abolizione dell’Irap. Sappiamo bene quanto la nuova disciplina chieda a un Ets in termini di affidabilità e controllabilità, credo che questa misura sarebbe un riconoscimento dell’impegno che le realtà iscritte al Runts, ormai 100mila, si sono assunte».

Quanto si paga oggi

Essendo una imposta regionale, ogni regione ha scelto per sé (qui tutte le aliquote e le esenzioni/agevolazioni previste). L’aliquota ordinaria è del 3,9% con una possibilità di “gioco” dello 0,92% in più o in meno. L’aliquota più alta d’Italia si paga in Lazio: 4,82%. Rispetto all’aliquota ordinaria, poi, ogni regione può introdurre agevolazioni (aliquote più basse) o addirittura l’esenzione per specifiche categorie come Onlus, cooperative sociali, Aps, Odv, ex Ipab, Csv ecc. Dove la lettera fa la differenza, regione per regione. Le agevolazioni spesso dipendono dallo stato di salute (finanziaria) del servizio sanitario regionale.

Il puzzle delle regioni

Anche a prescindere della “questione Ets”, nessuna agevolazione per soggetti con finalità sociali è prevista in Calabria, Lazio, Liguria e Veneto: pagano ad aliquota piena, come gli altri. Al contrario, l’Irap non è dovuta in Abruzzo, Provincia Autonoma di Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia, Provincia Autonoma di Trento, Valle d’Aosta. In Piemonte non la pagano solo le Onlus che si occupano di assistenza educativa sociale e sanitaria. Nelle altre regioni sono previste agevolazioni diverse, per soggetti diversi.

I conti da fare

Save the Children per esempio il passaggio da Onlus a Ente di Terzo settore lo ha fatto a maggio, ma non le cambia nulla: il Lazio infatti non prevedeva agevolazioni sull’Irap per le Onlus. Realtà come la Lega del Filo d’Oro (oggi Onlus, ma ha già avviato il percorso per divenire Ets), che conta 682 dipendenti ed è operativa in dieci regioni d’Italia piuttosto che come Aism e la sua Fondazione (che sono già Ets e la Fism nel passaggio al Runts ha perso la qualifica di Onlus), diffusa capillarmente sul territorio italiano, con circa 300 dipendenti, si trovano da sempre a gestire un panorama estremamente diversificato, che cambia da una regione all’altra. «Aism è la stessa, in Liguria o in Lombardia. Eppure ci sono profonde differenze in quello che dobbiamo versare», annota Paolo Bandiera, direttore generale di Aism. «Pur nella consapevolezza della titolarità in capo alle regioni di questa imposta, sarebbe importante arrivare a definire delle linee guida che permettano, sotto il profilo dell’esenzione soggettiva, di applicare dei criteri uniformi tra una regione e l’altra».

L’effetto del cambio di veste

Perché il “cambio di veste” da Onlus a Ets allora diventa penalizzante? Perché le agevolazioni (esenzioni totali o “sconti” sull’aliquota) valgono solo per i soggetti giuridici esplicitamente menzionati nelle norme regionali. È quella lettera che fa fede. Se l’esenzione è prevista per le Onlus, la manterranno solo le Onlus che non hanno fatto ancora il passaggio ad Ets mentre chi è divenuto Ets la perderà. Pur facendo le stesse cose di prima.

«Avremmo un aggravio di spese, che è uno dei motivi per cui stiamo ragionando in maniera così approfondita sul passaggio ad Ets», ammette Marco Chiesara, presidente di WeWorld, una Onlus che avendo sede a Milano passerebbe dalla esenzione completa alla aliquota ordinaria. Thomas Parma, direttore generale di Fondazione Asilo Mariuccia, sede a Milano e 68 dipendenti, prevalentemente educatori che lavorano nei servizi mamma-bambino o con i minori stranieri non accompagnati la perdita dell’esenzione dall’Irap e il passaggio all’aliquota ordinaria del 3,9% vorrebbe dire 90mila-100mila euro in più da mettere a budget: è uno degli elementi di cui stanno tenendo conto nella valutazione sull’iscrizione o meno al Runts. Situazione simile per il Cesvi, con sede a Bergamo: «Rischiamo di passare dal non pagare l’Irap a dover mettere in conto cifre importantissime, con la nostra attività equiparata a quella di una società commerciale», ribadisce il general manager Piersilvio Fagiano.

 Le regioni “distratte”

«Il fatto è che in questo passaggio, più o meno scientemente, le regioni non hanno posto adeguata attenzione al tema della migrazione. Non essendo state estese agli enti del Terzo settore che hanno perso la loro veste precedente, soprattutto per effetto della trasmigrazione al Runts, le agevolazioni previste restano in vigore solo per chi continua a mantenere la veste di prima, citata nelle leggi regionali. Sì, la differenza la fanno i termini utilizzati in quelle leggi», spiega Gianpaolo Concari, esperto di fiscalità del Terzo settore (qui un suo articolo precedente sulla questione Irap e Ets).

Anche sul piano operativo le cose sono complicate: «L’esenzione dall’Irap vale fino al giorno dell’iscrizione al Runts? Oppure l’aliquota ordinaria vale per tutto il periodo di imposta? E se devo separare i due periodi, come determino la base imponibile? Un pasticcio, insomma».

Si tratta di una situazione prevedibile e prevista, tant’è che «nel Codice del Terzo settore all’articolo 82 c’è scritto che le regioni possono deliberare esenzioni o riduzioni dal pagamento dei tributi per i soggetti iscritti al Runts, ma non c’è un termine entro cui farlo. D’altronde la materia è di competenza regionale, si può fare solo moral suasion, facendo pressioni per chiedere l’emanazione di una circolare per la determinazione della base imponibile per i soggetti che sono passati volontariamente o per trasmigrazione nel Runts e, soprattutto, la predisposizione di uno strumento legislativo regionale che permetta di applicare le precedenti agevolazioni, ove previste, agli Ets», conclude Concari.

Le proposte possibili

Se rispetto al pagamento dell’Irap quindi la situazione era già a macchia di leopardo prima della riforma, ora con l’arrivo del Runts e degli Ets il grado di caos è aumentato.

«La palla è nelle mani delle regioni, alcune hanno mantenuto l’esenzione per le Onlus e l’hanno estesa ad alcuni specifici Ets, altri l’hanno introdotta per alcuni Ets e per altri no, altri si sono disinteressati sia delle Onlus sia degli Ets e altre hanno aumentato l’aliquota», afferma Gabriele Sepio, segretario generale di Terzjus, che già a febbraio aveva sollecitato un intervento in merito.

«La proposta che si può avanzare è quella di dire che siccome c’è una riforma del Terzo settore che ha creato un quadro più omogeneo nel sistema, questa potrebbe essere l’occasione per uniformare il quadro regionale, ferma restando l’autonomia», spiega Sepio. «Per esempio si potrebbe creare un fondo transitorio, per un paio d’anni, a sostegno delle regioni, che permetta di uniformare il sistema. Tale fondo non permetterebbe l’esenzione dall’Irap per tutti gli Ets in tutte le regioni, ma certamente si può puntare ad una aliquota ridotta uniforme a livello nazionale per tutti gli enti locali, almeno per quelle regioni che non hanno in previsione di introdurre l’auspicata esenzione».

Una seconda ipotesi riguarda la possibilità di ridurre l’Irap lavorando sulla riduzione della base imponibile, scomputando per gli enti non commerciali il costo dei lavoratori a tempo indeterminato: «D’altra parte nella delega di riforma fiscale c’è un esplicito riferimento al superamento dell’Irap per gli enti non commerciali, si può iniziare dando priorità ad alcune categorie di enti. Quel che è certo è che un segnale di abbattimento dell’Irap per gli enti non commerciali in un modo o nell’altro andrebbe dato».

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Catalogo dei servizi residenziali, semiresidenziali, territoriali e domiciliari di cui al Regolamento di attuazione della L.R. 11/2007

Con delibera di Giunta regionale n. 439 del 20/07/2023 avente ad oggetto “Delibera di Giunta regionale n. 107 del 23 aprile 2014 – Catalogo dei servizi di cui al Regolamento regionale n. 4 del 2014 – Approvazione modifiche”, il Catalogo dei servizi residenziali, semiresidenziali, territoriali e domiciliari di cui al Regolamento di attuazione della L.R. 11/2007 è stato modificato al fine di renderlo conforme alla disciplina di cui al Decreto legislativo n. 121 del 2018 “Nuovo Ordinamento penitenziario minorile”.

 

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